Scenografo

Daniele Spisa

La vita segreta dei volti e delle cose

E devo dire che quell’idea [...] mi sono trovato diverse volte a confrontarla con il risultato finale ed era quella... Giusta, equilibrata, proporzionata.

Daniele Spisa (Ravenna, 11 novembre 1950) è uno scenografo con un’esperienza teatrale pluridecennale. Negli anni ‘70 si trasferisce in Toscana per compiere gli studi in architettura, presso l’università fiorentina. L’ingresso nel mondo teatrale avviene con l’inizio degli studi accademici, attraverso la forma amatoriale della disciplina, entrando a far parte del Centro Universitario Teatrale diretto da Valerio Valoriani. Nel 1972 si iscrive per la prima volta nelle liste dei lavoratori dello spettacolo, come macchinista. La sperimentazione dei nuovi spazi di allestimento, accompagnata da una solida esperienza nella scenotecnica, sono le caratteristiche principali del lavoro di Spisa, che lo porteranno a firmare alcune delle scenografie più importanti degli anni ’90. Le tappe più importanti della sua carriera sono state raggiunte grazie alle collaborazioni con Luca Ronconi, Toni Servillo e Mimmo Paladino.

Biografia di Daniele Spisa
Documentario

La vita segreta dei volti e delle cose: Daniele Spisa

Nel momento in cui ha deciso di fermarsi, dopo aver lavorato – e vissuto – nelle viscere di infiniti teatri, Daniele Spisa ha dato forma ad una casa che è anche falegnameria, archivio, studio d’artista e museo; una casa che accoglie con una sala ampia e prospettica, riccamente decorata, e che dietro le sue porte nasconde un labirinto piranesiano, colmo di presenze che si affacciano dalla penombra, una wunderkammer, una vertigine di altri mondi in miniatura, di scenari vuoti e attonite solitudini, fantasmi. Di lì, si scende in uno spazio intimo, profondo, dove va in scena il teatro della vita.

Crediti

© 2020 Documenti d'artista
Documentario: Simona Bellandi, Giuseppe Cassaro, Gianluca Paoletti Barsotti, Nicola Trabucco
Intervista e schede: Lindita Adalberti
Responsabili scientifici: Eva Marinai, Carlo Titomanlio

Territorio

La Festa del Teatro del Dramma Popolare di San Miniato

La prima rappresentazione teatrale del Dramma Popolare di San Miniato risale al 1947, un periodo storico in cui il desiderio della popolazione è di dimenticare le oscenità portate dalla guerra. La necessità di ricostruire il paese e di dare forma e speranza ai desideri della comunità conduce tre giovani samminiatesi, tra cui il pittore Dilvo Lotti, alla sperimentazione di un nuovo teatro che sia popolare, che abbia come fondamento la spiritualità cristiana e che sfrutti gli spazi urbani come palcoscenici per le rappresentazioni. L’idea di portare l’uomo al centro della scena teatrale, un uomo tradito dai suoi stessi simili e che in Dio ricerca quella speranza andata perduta durante la guerra, porta alla produzione di spettacoli di autori contemporanei, che s’interessano dei problemi di attualità con un occhio di riguardo al passato. L’Istituto Dramma Popolare inizia la sua attività con la messa in scena del testo di Henri Ghéon La maschera e la Grazia, opera sulla vita del Santo martire Genesio, attore e uomo di fede molto caro alla città di San Miniato, tanto da proclamarlo suo protettore.

Le spade e le ferite di Elena Bono, per la regia di Ugo Gregoretti, è lo spettacolo che segna l’inizio della collaborazione di Daniele Spisa con l’Istituto Dramma Popolare di San Miniato. Dopo l’anno 2000, Spisa firma la sua ultima scena per la Festa del Teatro nell’edizione del 2013.

 

 

Spazio

«Deve essere privilegiato il fatto che ciò che tu stai guardando è una cosa che succede realmente. Non parlo del realismo dell’ultimo bottone, che deve essere d’epoca, ma parlo di realismo dell’azione viva. Se questi principi vengono salvati allora il teatro può avere ancora qualcosa da dire, altrimenti gli altri mezzi sono troppo più competitivi. Si può salvare il teatro per questo: se si riesce a fondere questa capacità di raccontare, di far rivivere una cosa e se questo si unisce alla scenografia, anch’essa capace di far rivivere una cosa che abbia lo stesso valore e contenuto. La scenografia deve essere a servizio dello spettacolo, ma può avere anche una sua distinzione». – Daniele Spisa

 

 

Progetto

Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus, regia di Luca Ronconi, 1990

«La messa in scena di questo dramma, la cui mole occuperebbe, secondo misure terrestri, circa dieci serate, è concepita per un teatro di Marte. I frequentatori dei teatri di questo mondo non saprebbero reggervi. Perché è sangue del loro sangue e sostanza della sostanza di quegli anni irreali, inconcepibili, irraggiungibili da qualsiasi vigile intelletto, inaccessibili a qualsiasi ricordo e conservati soltanto in un sogno cruento, di quegli anni in cui personaggi da operetta recitarono la tragedia dell’umanità».
KRAUS Karl, Gli ultimi giorni dell’umanità (edizione italiana a cura di Ernesto Braun e Mario Carpitella con un saggio di Roberto Calasso), Milano, Adelphi, 1980, p. 9.

Karl Kraus, con questa premessa, sembra portare l’attenzione del lettore alla complessità del suo dramma Gli Ultimi giorni dell’umanità. La tragedia, iniziata nel 1915 e pubblicata nel 1922, è composta da cinque atti, con un prologo e un epilogo. La prima rappresentazione trova luogo a Vienna il 22 e il 23 febbraio del 1930 attraverso una lettura pubblica, con una riduzione a sessanta scene. Altre letture di questa tipologia vengono fatte nel 1945 a Zurigo e nel 1947 a New York. L’ultima rappresentazione è datata nel 1964 a Vienna, presso il Theater an der Wein. Queste informazioni sono riportate, come appunti di una prima analisi dell’opera, nel diario di lavoro dell’équipe di tecnici, che hanno lavorato alla rappresentazione del 1990. Il testo di Kraus si presenta con un totale di duecentoventi scene, con ambientazioni e situazioni diverse. Una delle prime difficoltà riscontrate è quella di riportarla all’interno di uno spazio non adibito a spettacolo, l’ex sala presse del Lingotto di Torino.

 

 

Strumenti e tecniche

«Mentre frequentavo il liceo artistico avevo iniziato a lavorare da un geometra e disegnavo al tavolo da disegno. Lì mi sono fatto le ossa. Tutta la progettazione esecutiva, che ho fatto prima appunto dell’arrivo del computer in casa, è stata fatta in studio al tecnigrafo. È stata un’esperienza forte e importante, che mi ha permesso di ottenere un buon livello del prodotto che stavo disegnando». – Daniele Spisa

 

 

Fonti e ispirazioni

«Altri due termini possono essere “demolizione” e “destrutturazione”. È un’operazione estetica raffinatissima ed è l’ultima cosa che mi piacerebbe fare prima di morire. Credo inoltre che questo discorso si possa applicare in tutte le forme espressive, anche nella pittura. Magari c’è un dettaglio che ti destruttura tutto quello che stai raccontando, l’apparenza! C’è qualcosa che è nascosto e che si svela in maniera non forte, non plateale, ma in modo molto sottile, tanto da non riuscire a spiegare quello che vedi. Di fronte a questo tu, al limite, puoi solo interrogarti. Non troverai risposte. Secondo me questo riflette la nostra epoca, che è piena di questi segni nel sociale e nel civile; e alcuni sono eclatanti. Ci sono dei risvolti che sono cose non dette subito, cose non dichiarate ufficialmente, che sono come il risvolto di copertina di un libro. Quasi un dietro le quinte. È un concetto sottilissimo. Deve essere la “negazione” – ecco un’altra parola – delle certezze più scontate. È una rivoluzione a tutto tondo. Devono essere delle stilettate, qualcosa di infilato nel fianco. Oltre ai grandi segnali d’allarme ci sono tutta una serie di segnali più piccoli, più subdoli e più celati che sono la vera verità». – Daniele Spisa